Pubblicato in: Dolci in forno!

La Regina napoletana

E’ nu sciore ca sboccia a primmavera,

e con inimitabile fragranza

soddisfa primm ‘o naso, e dopp’a panza.

Pasqua senza pastiera niente vale:

è ‘a Vigilia senz’albero ‘e Natale,

è comm ‘o Ferragosto senza sole.

Guagliò, chest’è ‘a pastiera. Chi ne vuole?

Ll’ ingrediente so’ buone e genuine:

ova, ricotta, zucchero e farina

(e’ o ggrano ca mmiscato all’acqua e’ fiori

arricchisce e moltiplica i sapori).

‘E ttruove facilmente a tutte parte:

ma quanno i’ à fà l’impasto, ce vò ll’arte!

A Napule Partenope, ’a sirena,

c’a pastiera faceva pranzo e cena.

Il suo grande segreto ‘o ssai qual è?

Stu dolce pò ghì pure annanz’ o Rre.

E difatti ce jette. Alludo a quando

il grande Re Borbone Ferdinando

fece nu’ monumento alla pastiera,

perchè facette ridere ‘a mugliera.

Mò tiene voglia e ne pruvà na’ fetta?

Fattèlla: ccà ce stà pur’ a ricetta.

A può truvà muovendo un solo dito:

te serve pe cliccà ncopp ‘ a stu sito.

Màngiat sta pastiera, e ncopp’ a posta

dimme cumm’era: aspetto na’ risposta.

Che sarà certamente ”Oj mamma mia!

Chest nunn’è nu dolce: è na’ poesia!”

(dal web)

Una delle mie pastiere 😋

La ricchezza degli ingredienti e la complessità dei gusti sembrano richiamare la cucina di corte. Ma l’incredibile affonda le sue radici nel mito, e dobbiamo fare un salto indietro fino all’epoca romana o forse addirittura greca: quando, secondo la leggenda, la sirena Partenope aveva scelto come dimora il Golfo di Napoli, da dove si spandeva la sua voce melodiosa e dolcissima. Per ringraziarla si celebrava un misterioso culto, durante il quale la popolazione portava alla sirena sette doni: la farina, simbolo di ricchezza; la ricotta, simbolo di abbondanza; le uova, che richiamano la fertilità; il grano cotto nel latte, a simboleggiare la fusione di regno animale e vegetale; i fiori d’arancio (o di altri agrumi, visto che la diffusione delle arance in quell’epoca era molto limitato in Europa: fatto, tra l’altro, che suscita non pochi dubbi sulla reale fondatezza storica della leggenda…), profumo della terra campana; le spezie, omaggio di tutti i popoli; e lo zucchero, per celebrare la dolcezza del canto della sirena. Partenope gradì i doni, ma li mescolò creando questo dolce unico.

Solo una leggenda, certo. Ma è sicuro che, per celebrare il ritorno della primavera, le sacerdotesse di Cerere portassero in processione l’uovo, simbolo della vita nascente poi diventato “rinascita” e Resurrezione con il Cristianesimo. Il grano o il farro, misto alla morbida crema di ricotta, potrebbe derivare invece dal pane di farro delle nozze romane, dette per questo “confarreatio”. Un’altra ipotesi fa invece risalire la pastiera alle focacce rituali dell’epoca di Costantino, derivati dall’offerta di latte e miele che i catecumeni ricevevano durante il battesimo nella notte di Pasqua.

Antenate piuttosto incerte, però, del dolce che noi conosciamo… che, con ogni probabilità, nacque molto più tardi: nel XVI secolo. In un convento, come la maggior parte dei dolci napoletani; probabilmente, quello di San Gregorio Armeno: un’ignota suora volle preparare un dolce in grado di associare il simbolismo cristianizzato di ingredienti come le uova, la ricotta e il grano, associandovi le spezie provenienti dall’Asia e il profumo dei fiori d’arancio del giardino conventuale. Quel che è certo è che le suore del convento di San Gregorio Armeno erano delle vere maestre nella preparazione delle pastiere, che poi regalavano alle famiglie aristocratiche della città.

“Quando i servitori andavano a ritirarle per conto dei loro padroni – racconta la scrittrice e gastronoma Loredana Limone – dalla porta del convento, che una monaca odorosa di millefiori apriva con circospezione, fuoriusciva una scia di profumo che s’insinuava nei vicoli intorno e, spandendosi nei bassi, dava consolazione alla povera gente per la quale quell’aroma paradisiaco era la testimonianza della presenza del Signore”.

Si dice che perfino l’ombrosa regina Maria Teresa D’Austria, “la Regina che non ride mai”, consorte del goloso “re bomba” Ferdinando II di Borbone, si fosse lasciata sfuggire un sorriso dopo un morso alla beneamata pastiera. “Per far sorridere mia moglie ci voleva la pastiera, ora dovrò aspettare la prossima Pasqua per vederla sorridere di nuovo”, commentò Ferdinando.

Sulla vera ricetta della pastiera napoletana, però, ognuno dice la sua e il dibattito ferve anche in terra partenopea. La ricetta classica prevede la preparazione di una frolla a base di farina, uova, strutto (o burro) e zucchero semolato da sistemare sul “ruoto”, la tipica tortiera in alluminio dai bordi lisci e leggermente svasati, alta 3-5 cm. Il “ruoto” più antico, però, consentiva di preparare pastiere più grandi visto che era alto addirittura 10 cm! Per il ripieno occorrono invece latte, zucchero, ricotta di pecora, chicchi di grano, burro, frutta candita, uova, vaniglia, vanillina, scorza d’arancia e di limone, acqua di fiori d’arancio e cannella in polvere. Il tutto da sormontare con le striscioline di frolla e poi da cuocere in forno, con spolverata di zucchero a velo finale.

Un primo dubbio riguarda il grano: oggi il grano precotto è di gran lunga la soluzione più pratica, ma la pastiera diventa ancor più vera se si utilizzano i “normali” chicchi di grano, messi a bagno in acqua tiepida per diversi giorni. L’indomani il grano per la crema si farà cuocere assieme a latte, scorza di limone, zucchero, cannella, un baccello di vaniglia e un cucchiaino di burro chiarificato. Fino a quando il grano non avrà assorbito tutto il liquido. Alcune ricette, poi, ai chicchi preferiscono il grano frullato; altre, salomonicamente, si dividono a metà: metà grano in chicchi e metà frullato. La cannella, inoltre, spesso compare come ingrediente facoltativo. Nella versione della storica bottega Starace (oggi non più esistente) di piazza Municipio, poi, la ricotta non veniva unita alle uova ma a una raffinata crema pasticcera. Secondo la tradizione la pastiera va preparata il Giovedì Santo e consumata a Pasqua, per dar modo a tutti i sapori di amalgamarsi.

Rispetto alle strisce di pasta frolla: sono sette e solo sette, non meno e non di più. Con la classica decorazione a “grata”, sono disposte in questo modo: quattro in un senso e tre nel senso trasversale, a croce greca. Come mai in questo modo? Le strisce formerebbero l’antica “planimetria” di Neapolis, con i tre Decumani e i Cardini che li attraversano in senso trasversale; rappresentando così, in maniera simbolica, l’intera città che in quel preciso momento offrì alla Sirena i sette doni.

(testo reperito dal web)

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La ricetta è facilissima e potete trovarla scritta sul barattolo del grano, ve lo riporto di seguito:

A me sono venute fuori due pastiere e l’altezza è di circa 3 cm, massimo 4, insomma, non deve essere altissima, ma poi alla fine c’è anche chi la fa più spessa, anzi, c’è chi dice che debba essere alta minimo 6 cm per mantenere la sua fragranza.

Altro appunto sulla ricetta: noi aggiungiamo anche dei canditi e facciamo a meno della crema pasticcera, ma sarebbe da provare anche con la versione crema pasticcera, però sta di fatto che è squisita anche senza.

Personalmente, vado matta già solo per il profumo dolcissimo che si spande per tutta la casa! Profumo di fiori d’arancio, profumo della Pastiera napoletana.

Autore:

Quando scrivo dimentico che esisto, ma ricordo chi sono.

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